
La promozione della democrazia è ancora tra gli obiettivi della politica estera svizzera

Venticinque anni fa, la Svizzera si è data mandato di promuovere la democrazia a livello globale. Nel 2025 l’obiettivo rimane, ma il mondo sembra aver imboccato una deriva più autoritaria.
Nel 2010, la giornalista Anne Applebaum scrisse di una “sciocca argomentazione” che si era diffusa in seguito all’invasione statunitense in Iraq: “La successiva incapacità dell’Iraq di trasformarsi da un giorno all’altro nella Svizzera del Medio Oriente viene citata come esempio del perché la democrazia non andrebbe mai forzata o promossa”, lamentava sul Washington PostCollegamento esterno.
Il riferimento alla Svizzera era piuttosto velleitario: nessuno si sarebbe aspettato che un intervento militare potesse trasformare d’un colpo Baghdad in Berna. Al tempo stesso, però, rivelava una verità lapalissiana sull’immagine del Paese elvetico come nazione ricca, stabile, multilingue e altamente democratica. Perché non considerarla un modello da emulare?
Un buon Governo più che nuovi Governi
Il Paese elvetico, di per sé, non fa molta autopromozione in questo senso. Nel 1999, durante una revisione costituzionale, si è preso l’impegno di sostenere la democrazia all’estero (articolo 54Collegamento esterno). Anche all’epoca, però, il nuovo mandato non ha suscitato molto clamore: l’obiettivo, già incluso nella politica estera degli anni Novanta, non fu molto citato nei dibattiti sul voto per la revisione costituzionale, che fu accettata dal 59% dei e delle votanti.
Da allora, l’approccio svizzero si è mantenuto piuttosto pragmatico. La maggior parte di ciò che il Paese elvetico fa per la democrazia rientra nell’aiuto allo sviluppo, sia come iniziative sia come budget: dal sostegno alla pace in Colombia, all’alfabetizzazione finanziaria delle donne nei Paesi arabi, alla digitalizzazione dei servizi pubblici in UcrainaCollegamento esterno. Tutte cose che “sono compatibili con la promozione della democrazia, ma senza mai nominarla”, dice Daniel Bochsler della Central European University.
Quando poi Berna intraprende iniziative di maggiore spessore politico, almeno pubblicamente, spesso sembrano attività di portata modesta, come ad esempio illustrare agli studenti e studentesse giapponesiCollegamento esterno gli strumenti della democrazia diretta svizzera.
In ogni caso, giudicare se la promozione della democrazia in genere sia riuscita o meno è sempre difficileCollegamento esterno. Il corpo diplomatico, per sua natura, opera con grande discrezione e progetti come quelli contro la corruzione di solito non sono forieri di cambiamenti diretti di regime. Inoltre, la Svizzera è solo uno dei tanti attori che cercano di promuovere o minare la democrazia all’estero.
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Un’esportazione di poco conto
Secondo Bochsler, ci sono diverse ragioni per cui la democrazia come prodotto d’esportazione non ha mai raggiunto i cliché di cioccolato e orologi, e per cui il DFAE si è sempre dimostrato molto cauto nel promuovere il modello politico svizzero.
Tra i principali motivi di tale prudenza c’è il dubbio che il sistema svizzero di democrazia diretta, con frequenti votazioni pubbliche e referendum, sia effettivamente esportabile.
Ma lo è oppure no? Negli ultimi anni, l’ascesa del populismo e il calo della fiducia nella democrazia hanno suscitato richieste di votazioni dirette anche in altri Paesi, oltre a un interesse occasionale per il modello svizzeroCollegamento esterno. Tuttavia si tratta di un equilibrio difficile. Ricercatori e ricercatrici citano spesso la democrazia diretta come fattore di stabilità in Svizzera. Il timore è che, a seconda di come viene attuata, possa destabilizzare i sistemi rappresentativi di altri Paesi. “Spesso è più richiesta in luoghi in cui chi è al governo vuole legittimare l’autoritarismo, promuovendo un referendum per cambiare la costituzione o scavalcare il parlamento” dice Bochsler.
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Un altro fattore in gioco è la neutralità, per cui gli esponenti politici stranieri tendono a “muoversi con cautela e a bilanciare e controbilanciare il posizionamento della Svizzera nell’arena internazionale”, ha scrittoCollegamento esterno il diplomatico svizzero Simon Geissbühler nel 2023. Geissbühler ha osservato che l’intera idea di promozione della democrazia è stata “contaminata” dagli interventi militari di fine anni Novanta e inizio anni Duemila, che hanno sollevato il tipo di interrogativi espressi da Appelbaum. Nel frattempo, la Svizzera ha “un’influenza limitata” rispetto alle grandi potenze, a livello diplomatico e finanziario: nel 2024 ha speso 250 milioni di franchi (305 milioni di dollari) per progetti di democrazia e governance, a fronte dei 3 miliardi di dollari l’anno investiti dagli Stati Uniti.

Tempi che cambiano
Nel 2025, molti di questi ostacoli sembrano ancor più insormontabili. Ovunque nel mondo, la democrazia sta perdendo terreno a favore delle autocrazie e gode di un favore sempre più incerto anche tra i suoi sostenitori più accreditati. A febbraio di quest’anno, Donald Trump ha tagliato quasi tutti i finanziamenti annuali degli Stati Uniti per la democrazia globaleCollegamento esterno. Altri donatori, tra cui i Paesi Bassi e il Regno Unito, stanno riducendo gli aiuti, al pari della Svizzera. Inoltre, fin dall’invasione russa dell’Ucraina, il Paese elvetico sta dibattendo su come adattare la propria politica di neutralità alla nuova realtà geopolitica.

Tuttavia, nel frattempo la Svizzera ha anche assunto una posizione più politica nei confronti della democrazia, almeno da un punto di vista retorico. La strategia di politica estera 2024-2027 l’ha indicata come una priorità assoluta per la quale il Paese dovrebbe “affinare il proprio profilo”. Nel maggio 2025, proprio nel bel mezzo delle manovre di Trump, il DFAE ha pubblicato le sue prime “linee guida sulla democraziaCollegamento esterno“, un documento strategico su come contribuire a “salvaguardare il mondo democratico”.
Ariadna Pop, responsabile della sezione Democrazia del DFAE, afferma che le linee guida mirano, tra le altre cose, a “chiarire ciò che la Svizzera già fa, oltre a sviluppare nuovi strumenti”. Le linee guida dividono le iniziative per la democrazia in due aree: l’impegno diplomatico (dialogo politico e multilaterale per sostenere una narrazione democratica) e il consolidamento e sostegno alle istituzioni (il lavoro sulla governance in cui il Paese è da tempo impegnato).
Regressi e priorità
Pop afferma anche che le linee guida tengono conto delle nuove realtà: “Venticinque anni fa, l’obiettivo era assistere i Paesi autoritari nella transizione verso la democrazia”, afferma. Ora si tratta di “proteggere” ciò che è già in vigore. In gergo, questo significa impegnarsi per prevenire un “regresso”, cioè la riduzione degli standard nelle democrazie già consolidate.
L’approccio, quindi, è meno ambizioso ma più mirato. Secondo Pop, le “autocrazie chiuse” non sono più una priorità: non ha molto senso aiutare a organizzare delle elezioni quando si sa già che vincerà una personalità autoritaria. Piuttosto, è meglio “impegnarsi nelle iniziative politiche con un gruppo più ristretto di Paesi”.
In diversi Stati dell’Europa orientale, ad esempio, la Svizzera si sta dando da fare per contrastare le voci negative sul sistema giudiziario e per migliorare il modo in cui comunica il proprio operato. In Costa Rica – una solida democrazia liberaleCollegamento esterno – i ragazzi e le ragazze che vogliono darsi alla politica ricevono una formazione guidata su norme democratiche e leadership. Le linee guida menzionano anche dei “Rapid Action Team”, dall’aria dinamica: specialisti e specialiste svizzeri che possono aiutare un Paese ad apportare riforme costituzionali o organizzare un referendum – ma, come sottolinea Pop, solo se è il Paese stesso a chiederlo.
Una scossa globale
Resta da vedere se il nuovo approccio potrà avere un impatto significativo. I Rapid Action Team non sono ancora stati chiamati ad agire. Rimane anche il dilemma se continuare o meno con il sostegno allo sviluppo nelle dittature, così come la scelta di dove concentrare risorse limitate.
Nel frattempo, secondo analisti e analiste la ritirata degli Stati Uniti, pur non avendo compromesso in maniera diretta nessuno dei progetti svizzeri, ha scosso nel profondo il settore della promozione della democrazia.
Solo l’anno scorso, la Svizzera si era dichiarata disposta a una stretta collaborazione sulle iniziative statunitensi. Ora, sviluppare partnership di questo tipo tra gli Stati ancora desiderosi di promuovere la democrazia è diventato più difficile, spiega Julia Leininger dell’Istituto tedesco per lo sviluppo e la sostenibilità (IDOS): “I tentativi di costruire nuove alleanze si riducono, mentre le partnership autoritarie vanno espandendosi e guadagnando legittimità”.

Un potenziale leader alternativo nel settore potrebbe essere l’Unione Europea, con i suoi Stati membri. Pur non essendo in grado di colmare la carenza di fondi lasciata dagli Stati Uniti, il “Team Europe Democracy”, fondato nel 2021 e comprensivo dell’operato di 14 Stati membri dell’UE e di varie fondazioni, è un “buon esempio di come combinare l’ambito lavorativo con quello strategico”, afferma Leininger. Finora, la Svizzera vi ha partecipato da osservatrice.
Voci oltre l’Occidente
Nei prossimi anni, dice Pop, l’idea è di ampliare il sostegno alla democrazia al di là del classico modello guidato dall’Occidente, per includere più voci al di fuori dei centri di potere tradizionali. L’attuale incertezza, secondo lei, potrebbe essere un’opportunità per riuscirci.
Secondo Leininger, ad alcuni Paesi non dispiace vedere la fine dell’ingerenza statunitense sulla democrazia nel proprio territorio. Tuttavia, la studiosa riconosce che un riorientamento globale non sarà privo di ostacoli. In passato, le speranze europee che grandi democrazie come il Brasile o l’India diventassero a loro volta promotrici globali non si sono mai concretizzate: “Si è scoperto che quelle potenze cercavano di mantenere una politica estera neutrale”. Per di più, ora l’India è classificata come “autocrazia elettorale”.
Nel frattempo, l’espansione di questo campo spinge a interrogarsi in primo luogo su che cosa sia la democrazia e su quali aspetti promuovere. In generale, dice Leininger, la grande contesa in questo momento non è semplicemente democrazia contro autocrazia, ma piuttosto “chi deve interpretare l’essenza stessa della democrazia”.
Articolo a cura di Benjamin von Wyl/ds
Tarduzione di Camilla Pieretti

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